Come trasformare una forchetta in un forcone: ovvero, le miracolose proprietà della proprietà intellettuale.
Giorgio Spedicato
Professore a contratto di Diritto della proprietà intellettuale nell’Università di Bologna
I conflitti tra l’arte – soprattutto quella contemporanea – e la proprietà intellettuale, non sono rari.
Jeff Koons, ad esempio, ne sa qualcosa, avendo spesso vissuto in prima persona le gioie (poche) e i
dolori (molti) delle aule giudiziarie. Più in generale, ne sanno qualcosa molti esponenti della cosiddetta
Appropriation Art, la pratica artistica basata sull’appropriazione e il détournement dell’esistente.
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Per i non addetti ai lavori, l’attrito tra Appropriation Art e diritto è presto spiegato: ogni qualvolta
un artista attinge un elemento dalla realtà, e tale elemento è oggetto di proprietà intellettuale
altrui, vi è un titolare dei diritti potenzialmente pronto a portare le sue doglianze in tribunale. E,
a causa dell’espansione vertiginosa che la proprietà intellettuale ha vissuto negli ultimi decenni,
le chances di mettere metaforicamente il pennello (o lo scalpello, o la videocamera, ecc.) in fallo
sono inesorabilmente aumentate. Mi piace ricordare a questo proposito una frase del regista Davis
Guggenheim, che quache anno fa ha proposto una mirabile sintesi del problema: «You’re totally free to
make a movie in an empty room, with your two friends».
Nella vicenda che ha visto protagonista Franca Formenti – la quale si è vista recapitare dal
Gambero Rosso una lettera di diffida rispetto all’uso del marchio delle “tre forchette” nell’ambito
dell’opera “Identità affamate” – non posso fare a meno di rilevare, tuttavia, alcune singolarità.
La prima singolarità è che la stragrande maggioranza delle controversie in materia di Appropriation
Art riguarda la presunta violazione di un altrui diritto d’autore, e non la violazione del diritto su un
marchio.
La seconda singolarità è che, in ogni caso, l’appropriation, in questo caso, è davvero molto limitata.
Le forchette che l’artista usa nella sua opera assomigliano molto a delle forchette stilizzate (e dunque
all’idea in sé di “forchetta”), ma poco alle “tre forchette” stilizzate del Gambero Rosso. Dunque
se appropriazione c’è, è appropriazione di una generica idea di forchetta stilizzata, e non delle
specifiche “tre forchette” stilizzate del Gambero Rosso.
Si potrebbe però eccepire: è il Gambero Rosso il soggetto che, notoriamente, usa le forchette come
simbolo per valutare la qualità dei ristoranti; è nelle guide del Gambero Rosso che, ad una maggiore
qualità del ristorante, corrisponde una maggiore quantità di forchette. Verissimo. In questo caso,
però, a me pare che le forchette vengano usate in un senso completamente diverso: “una forchetta”
– spiega Franca Formenti – viene assegnata allo chef che accetta di offrire un assaggio del proprio
cibo ad un comune cittadino che mai potrebbe permettersi di accomodarsi ad un tavolo stellato; “due
forchette” vengono assegnate allo chef che accetta di imboccare un comune cittadino; “tre forchette”
vengono infine assegnate allo chef che deciderà di cucinare insieme ad un comune cittadino. Il senso
delle forchette stilizzate impiegate in “Identità affamate” non è, pertanto, quello di premiare l’abilità
dello chef, ma solo quello di riconoscere pubblicamente la sua disponibilità ad uscire dal mondo dorato
della haute cuisine ricongiungendo quest’ultima, almeno per un attimo, con la vita reale di un mondo in
drammatica crisi economica.
Forchette stilizzate come strumento di critica sociale, dunque, e non come strumento per premiare le
capacità culinaria di uno cuoco o la qualità di un ristorante.
Su cosa si basa dunque, la pretesa del Gambero Rosso? Su fondamenta giuridiche assai fragili, a mio
parere.
Un marchio consente infatti tipicamente al suo titolare di impedire ai terzi, ossia a tutti, l’uso
commerciale di un segno simile al marchio stesso tutte le volte in cui il pubblico possa essere indotto a
confondersi sulla provenienza di un prodotto. Ma dov’è, in questo caso, l’uso commerciale, trattandosi
di un’opera d’arte? E dov’è, concretamente, il rischio di confusione per il pubblico?
Temo che, se si consentisse al titolare di un marchio di monopolizzare anche gli usi non commerciali
del segno, ci saremmo privati di icone del secolo passato, come le zuppe Campbell e le Brillo Box di
Andy Warhol, per citarne solo alcune.
Se bene intendo, nella querelle che ha visto protagonista Franca Formenti, il Gambero Rosso tenta
in realtà di vantare un inesistente diritto su un’idea: l’idea di usare forchette stilizzate come unità di
misura di qualcosa.
Ciò che preoccupa, in questa storia, non è tuttavia la verosimile infondatezza giuridica della pretesa del
Gambero Rosso, ma la pretesa in sé.
Diffidare qualcuno è attività per effettuare la quale non occorre necessariamente avere ragione.
Ma le diffide, si sa, sono i tuoni che annunciano il temporale. E il temporale, giuridicamente parlando,
ha un nome ben preciso: “causa”. Ora, come tutti gli avvocati sanno (e come i loro clienti imparano
presto a proprie spese), una causa ha tempi e costi non sempre sostenibili, e tanto meno sostenibili per
chi ha ragione. Di fronte ad una diffida, dunque, spesso si è portati a cedere, anche quando si ritiene di
essere nel giusto. È una scelta umana, e non sindacabile.
Sindacabilissima, invece, mi sembra la scelta di paventare azioni legali di dubbio fondamento quando
non ci si trova di fronte a presunti malfattori o sleali concorrenti, ma di fronte ad un’artista.
In un’epoca di ipertrofia della proprietà intellettuale – in cui finisce con l’essere tutelato tutto ciò che è
sotto il cielo – questo significa condannare l’arte a non parlare della realtà, il che significa condannarla
a non essere più arte. Un rischio che, in questi anni bui, la nostra società non può davvero permettersi
di correre.